Ubu nel luogo del ferro dei numeri. Dove il coraggio della fragilità diventa forza
Ubu Re va in scena!
C'è da prepararsi dal mattino, il luogo della recita lo chiede, anche l'orario, l'appuntamento è alle 15.15 nella Casa di Borgo San Nicola, il grande (e in-capace) carcere di Lecce, immerso in una assolata piana della campagna fuori le mura.
Si arriva, nel grande parcheggio destinato ai visitatori, ci si "alleggerisce" di tutto il possibile e, varcato un corridoio stretto in una cancellata, si viene ricevuti, c'è una lista, si lascia il documento e, dopo una breve attesa, si entra.
È angusto il foyer della sala teatrale. Arrivati, le divise son maggioranza, con il primo gruppo di spettatori il confronto è impari. Il caldo è ancora più caldo qui, oltre il cancello e soprattutto dopo il grande portone a scorrimento che fa da diaframma tra il dentro e il fuori
Il pubblico viaggia in navetta, dieci per volta nel luogo dei cancelli e dei numeri, lentamente. A superare il blu delle guardie penitenziarie bastano due viaggi. Le porte che aprono alla sala recano il n°21 e il n° 20. C'è una porta con un 30 e una con un 27. Segnati in rosso: numeri di una insondabile cabala...
Di la dal 21-20 si scaldano.
Il gruppo degli attori fa il piccolo chiasso dell'incitamento, qualcuno prova a sbirciare... La regista appare, al braccio la spirale di Ubu, conforta quel segno, specie adesso che le divise scompaiono in una gioiosa dis/ordinanza borghese. Entriamo e ci accorgiamo di essere alle spalle degli attori.
E' già Ubu con la sua soldataglia! Un quadro, netto preciso, riferimento ad una iconografia classica per chi è avvezzo a questo repertorio. Una novità coloristica e compositiva per chi per la prima volta è al cospetto dell'opera di Alfred Jarry.
Aspettano in piedi, in linea. Una linea spezzata da una grande scatola bianca... Aspettano che il pubblico sieda e smetta la chiacchiera.
Domina il bianco-giallo della lana nei costumi realizzati da Lapi Lou. Un leggero fondo bianco anche sul viso e la gota fatta rossa con un pallino... C'è anche Simone Franco nella linea, l'attore, l'unico libero, che per ritrovare senso al mestiere "s'è fatto arrestare"...
L'attesa si rivela lunga. La linea degli attori aspetta, aspetta, aspetta. Un pò troppo quell'essere esposti. Ma sono impeccabili e poi è tutto tempo preso al carcere. Una piccola libertà stare lì.
Da protagonisti poi...
Paola Leone, la regista, fa rivista della truppa e scambio d'occhi con i suoi, a rinfrancare. L'aver cura è dote di chi governa e solo queste rimangono contingenze degne d'essere momento civico, civile, di cura e di scambio reciproco.
Il teatro in carcere, riscatta la scena, la pulisce dalle scorie e mette noi pubblico nella condizione della com-passione, quella che sempre si deve provare al cospetto dell'attore per meglio concertare il suo darsi di corpo con le nostre attese.
Qui, la necessità è certezza.
E' il canone costruttivo. Nulla è in più e, il patto d'occhi, è libero di accogliere l'agire, l'essere in scena: il gioco dell'essere attore.
Comincia lo spettacolo.
Grazie a Jarry che sedicenne scrisse il suo atto di surrealtà la conquista della Polonia, di qualunque Polonia, è ora possibile. E qui la Polonia possiamo ben capire cos'è. Non c'è bisogno di scriverlo!
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La scatola bianca al centro si apre e accoglie i corpi. Rumore d'acqua all'esterno e un mormorare che cresce. Voci potenti si alzano, chè gridare viene bene quando lo puoi fare. Hai aria e polmoni da spendere.
Casa Ubu si mostra Madre Ubu, il Capitano dei Dragoni, Ubu stesso con le sue brame... e poi la cacca, la "merdre" di Jarry, che fa il raccontare materia... Ma che bontà, ma che bontà... canta Mina a accompagna l'offertorio ed è subito chiaro cosa il potere dona, all'altro, quando è potere.
La scatola – pensata da Juri Battaglini - è la chiave scenica del divenire dell'atto, è mobile, leggerissima, disegna le inquadrature con il suo interno nero che diventa sfondo scomponendosi ad accogliere le azioni: scena bellissima l'arrivo e la caduta del Re di Polonia, la regina lo piange recitando sotto un elegantissimo velo di plastica trasparente che ingloba la voce.
Bellissimo anche il farsi d'ali delle quinte che ruotano mosse dall'energia della soldataglia. Segno distintivo del corpo-danza della Compagnia Factory, che sempre chiama leggerezza nel contrappunto con le scelte musicali che cuciono il "pop più pop" con sinfonie russe e con sospensioni che fanno valzer le marce militari...
Sul lato destro della scena, le guardie penitenziarie a schiera sulla 20-21, ridono... rapite!
Un bellissimo triciclo – disegnato e realizzato da Dario Rizzello e dagli allievi del Liceo Artistico V. Ciardo di Lecce – porta in trionfo il vincitore Ubu e la sua guasta ufaneria, l'orgoglio e la vanità che tutto consumano rendendo vana ogni relazione, ogni costruzione, godendo del distruggere... E' lo spettacolo, ma è anche la vita, la nostra, consumata da un Potere sempre più chiuso in se stesso, sempre più Ubu nella sua scioccheria e nella sua cudeltà che tutto costringe nella botola...
La scena è un continuo divenire di gag dove il ridere libera tensioni liriche di grande efficacia una per tutte il dialogo con il cardellino, la guerra tenuta nel pianto dai soldati che soli si colpiscono prima di cadere, sul venire di un can-can... Poi la ginnastica oratoria che prova saluti, il baffetto, il sorriso largo e la foto con il caduto...: "Diffidate dai casamenti di grande superfice dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi..”. il monito che viene. Dopo, l'abbraccio e poi Gaber a offrire la trama teorica che chiede un cambiamento sostanziale dell'animale uomo per poter tornare a sperare...
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Un ottimo, ottimissimo lavoro. Grazie! “Sei mesi di lavoro per sentirsi dire siete stati bravi" dice Mamma Ubu. E, il coraggio della fragilità diventa forza. Per tutti, lì dove la regola è quella del ferro e dei numeri!