"La bisbetica domata" vista da Ester Formato
Nello scorso weekend presso il Teatro Nest di San Giovanni a Teduccio, quartiere orientale di Napoli, è andata in scena la Factory Compagnia Transadriatica con una briosa versione de “La bisbetica domata” di William Shakespeare.
La compagnia pugliese nasce nel 2009 e oltre a produrre spettacoli, connette teatro e sociale attraverso un percorso ispirato alla drammaturgia collettiva che sperimenta all’interno delle carceri.
Dopo Il sogno di una notte di mezza estate, il regista Tonio De Nitto e il drammaturgo Francesco Niccolini affrontano un altro testo del Bardo, La bisbetica domata, appunto, basandosi su un’estetica fiabesca e antirealista, riuscendo, con mirabile arguzia, a restituire al pubblico in sala intatta quella vena irrequieta e dark, sottilmente allusiva al mondo reale e vero che suggella i personaggi.
De Nitto pone in assito la sagoma del palazzo di Battista e delle sue due figlie, stagliandolo su un fondale illuminato di blu; tale sagoma – fatta di pannelli mobili – viene scomposta in più parti, più casupole afferenti a vari personaggi, costituendo l’assetto scenografico di una tipica commedia classica. È evidente l’utilizzo di una scenografia fortemente allusiva al genere della fiaba che non si esime dall’esibire pezzi di compensato colorato, come allegro vessillo del gioco dell’illusione teatrale.
Le strutture mobili e scomponibili hanno porticine e finestre praticabili dalle quali – secondo un’ingegnosa costruzione delle sequenze sceniche – entrano, escono e spuntano i vari personaggi, dando avvio ad una sorta di armoniosa girandola che rimanda, secondo un accurato lavoro di adattamento e di riscrittura del testo, “un’antifrastica leggerezza”. Niccolini rispetta tutti e cinque gli atti dell’opera, li rinsalda attraverso il ripristino della rima e di una musicalità ottenuta sulla falsa riga dell’operetta buffa, secondo l’idea di fare della commedia scespiriana una fiaba “rovesciata”. Reggono tale gioco i costumi oltre ogni contestualizzazione temporale, le luci che privano il setting di ogni pretesa realistica a vantaggio di una rarefazione visionaria, la presenza di oggetti di scena non reali, ma solo sagomati e “simboli” grotteschi (come il gattino steso a mo’ di un indumento).
Anche il susseguirsi rapido dei quadri, congiunto alla perfetta gestione delle entrate ed uscite dei personaggi è strettamente correlato all’uso della rima ed alla ritmica musicalità della drammaturgia, elaborata, d’accordo con l’idea registica, operando sul testo originario a vantaggio di una compagine solida ed al contempo sinuosa; una sinergia, dunque, inappuntabile vige fra i molti aspetti (tecnici ed artistici) dello spettacolo nella sua totalità.
Ad ogni personaggio è attribuita una caratterizzazione grottesca che intelligentemente ammicca al ludere dell’arte scenica, maschere che ricalcano quelle privilegiate della commedia canonica (il servo scaltro, il padre avaro, il giovine innamorato) “imbellettate” dai mica nascosti artifizi teatrali. Bianca, così brillantemente interpretata en travesti da Antonio Guadalupi contrappone un’artefatta natura alla Caterina di Angela De Gaetano che, vittima di un imperante e cinico maschilismo, ci arriva sul finale così vera e così reale, pur immersa fra i personaggi visionari che l’attorniano.
Come se Tonio De Nitto e Francesco Niccolini avessero pensato di recintare la protagonista con la sua forza genuinamente ribelle e sincera, entro una giostra di maschere e di personaggi, fatta da plautini (o ariosteschi) scambi di persona e sotterfugi, e fatta perfettamente coincidere con l’ingranaggio stesso dell’illusione teatrale che si traduce, nell’epilogo, in una sorta di incubo. Così, la compagnia pugliese ci porta lentamente con una disarmante comicità, ad un finale amaro e “caustico”. Non un mero castigat ridendo mores, ma una sapiente abilità della pratica teatraletout court rende possibile la compresenza di registri chiaroscurali che trasforma una commedia farcita di tutti i cliché di questo genere in una fiaba-incubo originalissima.
Angela De Gaetano, Dario Cadei, Ippolito Chiarello, Franco Ferrante, Antonio Guadalupi Filippo Paolasini, Luca Pastore e Fabio Tinella riescono a donare al pubblico una performance di rara freschezza. Il loro merito, tra gli altri, resta quello di mettere in scena un’opera shakespeariana come difficilmente lo si faccia, specialmente se pensiamo alle maggiori produzioni e ai grandi teatri, instancabili fucine di classici, presenti in cartellone per settimane. Molto spesso vi si praticano letture o regie stantie che rendono noi spettatori sempre più distratti e spenti, spaesati su come rapportarsi alla tradizione e ai repertori classici. La Factory Compagnia Transadriatica con questo suo bel nome, con una genuina natura di “artigiano” come dovrebbe restare l’arte del teatro, ci viene incontro destando in noi una novella curiosità e forse un miglior approccio verso un testo che come altri pensiamo poco “funzionante” in relazione alla sensibilità contemporanea. Eppure, Caterina nel suo monologo finale, sul palco del Nest, canticchiando la canzonetta del Quartetto Cetra alla maniera di un film thriller, ci convince di quanta vivacità, intelligenza e riflessione possiamo ancora trovare nella sua vicenda.