top of page

Tonio De Nitto, Factory Compagnia e il Sud che resiste [INTERVISTA]

È pennellata da sfumature cupe La Bisbetica domata firmata da Tonio De Nitto su testo di William Shakespeare per l’occasione tradotto e riadattato da Francesco Niccolini. E ha lo sguardo rivolto al presente la storia di cui si fa racconto, messinscena, farsa, sviluppando due anime, due registri stilistici, tra loro in contrasto eppure complementari: se da un lato, infatti, resta fedele alla drammaturgia originale così come concepita dal Bardo alla fine del ‘500, dall’altro è su nuovi aspetti psicologici dei personaggi, nascosti tra le trame del plot, che fa leva. Un tradimento, dunque, quello messo in atto, ma a spiegarcene le motivazioni è lo stesso regista ancora una volta impegnato a confrontarsi – dopo i successi di Sogno di una notte di mezza estate e Romeo e Giulietta – con il drammaturgo inglese: «L’elemento fondamentale da cui siamo partiti per nostra Bisbetica è stato trovare un’idea forte rispetto all’oggi: se ciò non fosse accaduto, non avrei scelto questo testo che così com’è, e così come viene generalmente rappresentato, non mi racconta molto né mi rappresenta in quanto distante da una esigenza vera. Poi, però, soffermandomi a pensare cosa volesse realmente dire “domare”, oggi, cosa realmente volesse

significare questo “addomesticamento” che viene operato sia psicologicamente che in maniera più violenta e fisica, ecco che il senso vero in grado di dare un significato contemporaneo alla nostra opera è emerso. E così siamo partiti dal monologo finale, avvolto nel dubbio più totale, rispetto al quale Shakespeare non ci lascia alcuna didascalia o nota». E proprio ad esso si è lasciato il compito di far intravedere una possibilità diversa rispetto alla natura della protagonista Caterina (l’ottima Angela De Gaetano), di cui si è scelto, nell’evolversi della vicenda, di non accentuare l’aspetto burbero e scostante, ma di raccontarne anche l’aspetto più emotivo, più fragile, che ancora De Nitto così ci spiega: «Rispetto al fatto che Caterina si prende gioco degli altri, c’è sempre stata una interpretazione arbitraria dei registi, che al termine fanno iniziare di nuovo la storia, come si trattasse di un cerchio, enfatizzando la natura da bisbetica che finge. Nel nostro caso, invece, viviamo in un’epoca in cui tante sono le persone che vediamo soccombere senza la forza di opporsi, soprattutto perché l’amore spesso si manifesta sotto forme diverse, ambigue come quelle che noi mettiamo in scena, per cui – sì – Caterina soccombe, si rassegna, ma allo stesso tempo prova una grande attrazione per Petruccio (il perfetto domatore, di nome e di abito, Ippolito Chiarello), che è anche il suo carnefice, proprio come spesso accade negli ambienti familiari dove non ci si accorge nemmeno di rinunciare a se stessi, di spegnersi pian piano in funzione di un altro».


Ma attenzione a non correre il rischio di trasformare questa versione della commedia shakespeariana a cura della Factory Compagnia Transadriatica in una bandiera del femminicidio – precisano gli autori: «Lasciamola pur sempre la Bisbetica del Bardo, e che ognuno, piuttosto, faccia il suo personale viaggio dalla favola, dal cartone animato, fino al finale drammatico che rompe le aspettative costruite durante tutto lo spettacolo». Se infatti, giocati su toni ilari, così come su travestimenti e intrecci comici, sono i momenti iniziali che ci introducono al cospetto di Battista, padre di Caterina e Bianca, dei corteggiatori Gremio e Ortensio e del giovane Lucrezio insieme al suo servo Tranio, nonché dello spavaldo Petruccio (a cui, insieme ai due protagonisti principali, conferiscono carattere e incisività, con cesellata maestria, gli attori Dario Cadei, Franco Ferrante, Antonio Guadalupi, Filippo Paolasini, Luca Pastore e Fabio Tinella), è a un carillon rotto, a marionette spezzate, a uno schiaffo nel bel mezzo di una risata, che si approda dopo aver indirettamente vissuto le peripezie dei personaggi. E non casuale diventa il riferimento ai fili tagliati dei burattini che fino a quel momento avevano animato la scena («Mia figlia sembra una marionetta appesa al filo della gogna»), materializzazione, del resto, di quella che è una precisa visione registica, presente anche in altri lavori: «In effetti penso di avere nel cervello un carillon – scherza De Nitto – e non a caso da piccolo sognavo di fare il ragazzo delle giostre. Per cui, è vero, teatralmente mi piace pensare di realizzare delle macchine precise in cui far muovere gli attori, con effetto straniante e in grado di riprodurre in maniera simile ciò che accade a noi essere umani».


Ma a questo punto lasciamo per un attimo La Bisbetica domata, e facciamo un passo indietro per chiederci cosa abbia spinto un giovane regista con la sua compagnia nata solo nel 2009, ad approcciare per ben tre volte consecutive ad un baluardo del teatro elisabettiano, ovvero sir William: incontro casuale o percorso programmato? «Nell’incoscienza iniziale non si è trattato di un percorso programmato. Tutto è nato da una grande passione e ammirazione per il Bardo derivante dai miei studi e dagli stimoli ricevuti in famiglia; poi strane coincidenze all’interno dei percorsi artistici fatti precedentemente anche con i Cantieri Koreja (penso a Molto rumore per nulla, che è stato il mio primo spettacolo da attore, oppure all’Otello per il quale sono stato assistente alla regia di Arturo Cirillo) più che farmi scegliere Shakespeare mi hanno fatto sentire scelto dalle situazioni portandomi al primo lavoro, ovvero Sogno di una notte di mezza estate, uno dei testi più strambi del Bardo e forse anche più difficile perché sottende un gioco molto delicato, spesso frainteso o proposto in maniera pesante, caricato di letture eccessive che invece – secondo me – hanno bisogno di leggerezza. Da qui il nostro allestimento targato 2011 che gioca su lingue diverse e vede la partecipazione di attori stranieri, creando quegli stessi non-sense che potevano nascere nel mondo delle fate e che noi abbiamo ritrovato negli ostacoli linguistici, appunto; nella volontà di creare una lingua unica per comunicare che fosse gestuale, facesse ricorso ad un inglese inventato e fosse in grado di coinvolgere il pubblico così rifondando l’atmosfera originale». Da quel momento inizia la fortunata collaborazione con Niccolini, incontrato durante gli anni di Koreja: «Drammaturgo con una grande passione per la rima in tutte le sue svariate forme – baciata, alternata, finanche inventata – Francesco aveva visto il Sogno ed era rimasto folgorato dallo spettacolo per cui ci aveva chiesto di poter scrivere qualcosa per noi, e così è nata l’idea di lavorare attorno a Romeo e Giulietta partendo dalla nostra appartenenza geografica, cioè scegliendo di raccontare la storia come una festa patronale tipica del Sud, che in tre giorni vede consumarsi una tragedia spietata che porta alla fine di una intera generazione di giovani».


Una costante delle tre produzioni shakespeariane ad oggi realizzate, la presenza in scena di Angela De Gaetano, «seria come pochi, duttile e ostinata», come la definisce De Nitto che su di lei spende parole di grande ammirazione, pur se ammette: «È un’attrice con cui non è semplice lavorare perché esige tantissimo: nella costruzione dei suoi personaggi ha bisogno di un tempo molto personale, ha bisogno di ascoltare e capire a quale gioco sta giocando prima di prenderne parte definitivamente». Poche parole e molti fatti, dunque, perché, come continua il regista, « nel silenzio lavora cercando la giusta direzione fin quando il personaggio da interpretare non è completamente forgiato e pronto ad essere esposto». Ma si sa, è l’unione che fa la forza e certamente l’aspetto corale è la cifra distintiva dei lavori firmati Factory, specchio fedele della poetica di De Nitto, particolarmente attratto da quelli che definisce “villaggi teatrali” e che ben aderiscono – nella loro formulazione – alle sue visioni «perché all’interno degli spettacoli mi piace immaginare anche quello che c’è oltre il visto, il visibile» esattamente come accade ne La Bisbetica dove la scenografia, mobile, funge da quinte e prolungamento degli sguardi dei singoli personaggi, di cui percepiamo le azioni attraverso le finestre e le porte, così avvertendo la sensazione che «c’è una storia anche al di là di ciò che vediamo».


Se è una idea panoramica a contraddistinguere la sua regia, «non escludo – precisa – che debba confrontarmi anche con delle forme diverse, in relazioni ai tempi e alle circostanze che mi condizioneranno in tal senso. Per ora siamo stati assolutamente temerai nella scelta di essere dei giovani non conosciuti, non legati ad alcun nome o produzione altisonante, che rischiano a fare uno Shakespeare corale, poi un altro e un altro ancora». Dinanzi a un tale coraggio, premiato dagli applausi del pubblico e da una tournée di successo, ci si aspetterebbe, a questo punto, anche il conseguimento di altri risultati – economici – che facilitassero la progettazione a lungo termine, regalassero respiro a favore di nuovi lavori e invece «a febbraio discuteremo al TAR il ricorso al Ministero per essere stati esclusi come giovane impresa di produzione» dai finanziamenti triennali previsti, bocciati per non aver superato il parametro artistico valutato 1 punto su 6, come se le collaborazioni messe in campo, i cinque anni di vita come compagnia di giro, la residenza artistica di Novoli, di colpo, non valessero più nulla e tutto il coraggio profuso non fosse stato «affatto conosciuto» dalla commissione chiamata a valutare le proposte. Innegabile, pertanto, la mortificazione ma se anche il futuro si dovesse prospettare in salita «spero che prevalga l’istinto creativo e che la razionalità ci accompagni come è accaduto finora facendoci ponderare ogni scelta sulla base di dati certi, dei riscontri ricevuti, delle risposte dai teatri che ci hanno ospitato registrando gratificanti sol out». E se un ruolo di testimonianza è possibile ricoprire, questo spetta certamente alla critica, che ha dalla sua parte l’opportunità di puntare un faro sulle realtà teatrali meridionali ancora troppo poco conosciute, alimentando il dibattito su di esse, raccontando quanto fanno e cosa muovono. Perché resistere si può. Ma farlo mettendo in gioco ciascuno le proprie competenze è un dovere a cui non ci si può sottrarre.


Post in evidenza
Post Recenti
Cerca per tag
Seguici
  • Facebook Basic Square
  • Twitter Basic Square
  • Google+ Basic Square
bottom of page