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Semplicità e immediatezza - Diario di un brutto anatroccolo visto da Michele Di Donato su ilpickwick

Semplicità non vuol dire semplificazione, l’immediatezza non è sinonimo di scorciatoie comode per raggiungere una mèta nel più breve tempo possibile. Semplicità e immediatezza sono le prime parole che mi vengono in mente per raccontare del brutto anatroccolo di Tonio De Nitto, spettacolo compatto e consistente che appare in scena sotto forma di muto diario (nel senso che non fa uso di parole), in una domenica pomeriggio affollata di bambini e di non-più-bambini che li accompagnano, in quel dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce.

La scena è nuda e aperta su quattro creature accovacciate, corpi in posizione di massima raccolta a significare uova non ancora schiuse. Allo spegnersi del brusio che promana da nugoli di bimbetti assiepati con in dote un entusiasmo naturale, le uova si aprono a nuove vite. Sul fondale appariranno progressivamente le immagini di lavagne compitate coi caratteri di gesso della bella scrittura, come fossero scritte da uno scolaro diligente, la prima ci illustra il viaggio programmatico a cui stiamo per assistere: Diario di un brutto anatroccolo. Le quattro figure in scena, dopo lo schiudersi dei gusci, cominceranno a camminare in fila indiana, sin da subito facendo percepire la non congruità – ovvero la diversità – di uno di loro dal resto del gruppo. La favola di Andersen prende la forma di una partitura corporea che s’adatta ai tempi e ai luoghi e racconta, con la semplice efficacia dell’immagine che evoca senza aver bisogno di una favella che la spieghi. Sicché, il piccolo anatroccolo sgraziato incontrerà sul proprio cammino – scandite a colpi di lavagna che ne seziona la narrazione in capitoli – le angherie dei contesti di socializzazione primaria: dalla ricusazione familiare al bullismo scolastico, per arrivare alle vessazioni e al mobbing sul lavoro. Così i banchetti in scena creano un’idea di scuola, le tute blu e gli elmetti evocano un luogo di lavoro e, in questi contesti, il nostro anatroccolo – in realtà cigno inconsapevole, incontra la percezione del sentirsi diverso, veicolata pervicacemente da chi è con lui in quel contesto, esercitando nei suoi confronti una supremazia violenta. Anche la comparsa dell’amore, in questo delicato viaggio di formazione che da umana si fa anche sentimentale, concorrerà alla crescita del brutto anatroccolo, creatura sola che si pone in relazione tenera con la propria solitudine, scandita dallo scalpiccio indefesso delle altre creature nelle loro calzature pinnate e palmate, che le connotano come palmipedi antropomorfi. Il tutto agito e sottolineato dalle note di Tchaikoskij e dalle musiche di Paolo Coletta, che immettono la favola in un’atmosfera trasognata – eppure intrisa, più che di realismo, diremmo di aderenza al reale – che si dipana lieve come uno di quei film muti inframmezzati da rare didascalie e nei queli le immagini parlano bastando da sé. La bellezza di questo spettacolo si riverbera negli occhi dei bambini, che sento curiosi attorno a me mettersi in relazione acuta e non passiva con lo spettacolo, percependone le sfumature di senso (come dimostrerà anche la partecipazione alla chiacchierata a fine spettacolo tra gli attori della compagnia e i piccoli astanti), fino ad incantarsi dinanzi al finale, in cui un fondale argenteo metterà l’anatroccolo in cospetto della sua stessa immagine e della reale natura di cigno, suggerendo, col meccanismo fortissimodell’evidenza, una trasformazione che avviene come atto coscienziale e scelta volontaria, esemplificata nell’atto finale di strappar via i drappi per ritrovarsi dinanzi ad uno specchio che gli parlerà a tu per tu suggerendogli la realtà riflessa. “SONO IO”. Gli attori in scena si muovono con grazie e leggerezza, diretti da una regia che maneggia con delicata cura il tema della diversità, bilanciando sapientemente le sfumature emotive, ispirando il sorriso e la tenerezza, l’allegria ed il sostrato malinconico che la stempera. Semplicità e immediatezza veicolano agilmente un messaggio da palco a platea, come fosse la cosa più semplice di questo mondo, quasi senza farci accorgere che alla base c’è un fine lavoro di rielaborazione che, passando per l’uso di suoni e immagini, crea una messinscena che possiede lo stesso nitore dell’abito bianco di un cigno sbocciato alla vita.


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