“Siamo donne o pagliacci?” L’indomita bisbetica di Factory-De Nitto - Monica Varrese su Paneacquacul
Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Siamo state molestate, perseguitate, aggredite, picchiate, sfregiate.
I numeri parlano chiaro. Solo in Italia, ogni anno, vengono uccise oltre cento donne, alle quali si aggiungono storie di violenze quotidiane, che spesso sfuggono da ogni tipo di rilevazione.
Ma tutto questo cosa c’entra con Shakespeare e la Bisbetica domata?
Nella visione portata in scena da Factory Compagnia Transadriatica, per la regia di Tonio De Nitto con la traduzione e l’adattamento di Francesco Niccolini, la dimensione comico-farsesca propria di questa commedia entra in collisione con elementi di serietà drammatica, elevando la storia di Caterina a parabola e paradigma dell’oppressione femminile. Eppure nell’immaginario comune questa è una delle commedie più semplici e lineari del Bardo.
Apollo e Dafne di Bernini
Le luci blu notte disegnano la sagoma di una grande porta, dalla quale si fa strada una donna vestita da sposa. Il suo intercedere è insicuro e frammentato come quello di una marionetta. Il tema è già svelato e si traduce in questa scena onirica e grottesca, nella quale forte è il rimando all’avventura metamorfica di Dafne nel grande poema di Ovidio: per sottrarsi al desiderio di Apollo e per interrompere una fuga che sta per annientarla, la ninfa si trasforma in pianta di alloro. Rinuncia al suo corpo, proprio come la nostra protagonista.
In questa riscrittura il prologo drammatico (Induction), presente nella versione originale, viene eliminato e sostituito (a giusta ragione) da questa azione in pausa, che mantiene i riferimenti alle metamorfosi ovidiane nel passaggio dalla dimensione del reale a quella della finzione.
L’azione scenica si svolge in un villaggio immaginario, ricreato con grande accuratezza da Roberta Dori Poddu e Luigi Conte. Le fiabesche-pop scenografie stile Wes Anderson, insieme alle luci di Davide Arsenio e i costumi eccentrici e gotici di Lapi Lou, ricreano una dimensione fiabesca che con lo svolgersi dell’azione assume tratti sempre più cupi, trasformandosi in favola nera e grottesca. La storia va avanti e insieme ai personaggi, anche le musiche subiscono una metamorfosi, sviluppandosi di pari passo con ogni ruolo e scena. Le musiche originali di Paolo Coletta traggono ispirazione dalla magia compositiva di Danny Elfman, storico compositore di Tim Burton.
In questo villaggio la dimensione privata non esiste. Tutti guardano, registrano, schedano. C’è sempre qualcuno che, a debita distanza, scruta l’azione e architetta un piano per trarne beneficio. L’intrigo si dipana secondo un’armonica alternanza fra i due intrecci, collegati dal motivo centrale della metamorfosi. L’intreccio principale si sviluppa con la trasformazione di Caterina (la potente Angela De Gaetano), presentata secondo gli stereotipi della bisbetica: violenta, rissosa, diabolica, una gatta selvatica da addomesticare. Lei è l’outsider, l’inadeguata, la pazza e l’opposto della sorella Bianca, il cui matrimonio dipende da quello della maggiore. Divertente e acuta la costruzione del ruolo di Bianca (Antonio Guadalupi), che incarna tutti gli stereotipi della donna nella visione dell’uomo (civettuola, devota, servile, obbediente), in netto contrasto con la fermezza iniziale di Caterina. Entrambe sono animali da macello, merce di scambio messa all’asta al migliore offerente da parte del padre-mercante Battista (Franco Ferrante).
Il motivo mercantile lo ritroveremo spesso in questa riscrittura, in cui tutti gli uomini sono dei “gamester”, giocatori d’azzardo. In questo gioco la donna diventa un bene che si ottiene mediante un contratto, vittima delle regole del mercato alle quali Bianca si oppone con finto consenso e Caterina con aperta ribellione.
Nella regia di De Nitto è impossibile odiare la Bisbetica domata. Tutti fanno il tifo per lei perché è una donna alla ricerca del vero amore. Spigolosa e travolgente nella prima parte, con l’arrivo del “domatore” Petruccio (Ippolito Chiarello), Caterina subisce un disorientamento fisico e verbale. Il loro incontro diventa un match condotto sul piano della violenza, delle continue battute/frecciate che spezzano con maestria l’andamento comico dell’intreccio secondario, tutto basato su equivoci e inganni amorosi, travestimenti e metamorfosi.
La favola si fa incubo dopo la scena centrale del matrimonio, a cui segue la segregazione claustrofobica di Caterina in casa del suo carceriere. Questo cambio netto è accentuato dalla scelta di luci semibuie, che disegnano nello spazio scenico ombre quasi spettrali.
L’ultima fase del processo di “addomesticamento” culmina nella prevaricazione di Petruccio sul rapporto apparenza/realtà: il sole diventa luna e un uomo una donna. La verità è solo quella che fuoriesce dalla bocca del carceriere, nessuna possibilità di replica.
Un ottimo lavoro quello messo in scena dalla compagnia, che fa del lavoro corale la sua più grande forza. La riscrittura di Niccolini, per impostazione drammaturgica ed effervescenza del linguaggio, riesce a fondere la dimensione comico-farsesca con quella tragica e grottesca. Un lavoro che scava nel profondo e raggiunge l’apice con le parole pronunciate da Caterina nel monologo finale: “Siamo donne o pagliacci?”.
Guardando il volto tumefatto di Caterina, riconosciamo parte del nostro vivere quotidiano: l’indifferenza del villaggio; la violenza fisica, ma soprattutto psicologica, perpetrata da alcuni uomini e l’annullamento totale di sé per un’idea distorta di amore.
Il bello è che ne torniamo a parlare con Shakespeare. A lui dobbiamo proprio tutto.