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“Il nostro teatro è per tutti”. Intervista di Matteo Brighenti a Tonio De Nitto / Factory Compagnia


De Nitto risponde a PAC in un momento di pausa dalle prove di Mattia e il nonno, al debutto il 10 maggio a Segnali, il Festival Teatro Ragazzi a Milano giunto quest’anno alla XXX edizione. Tratto dall’omonimo libro di Roberto Piumini e interpretato da Ippolito Chiarello, lo spettacolo affronta il diventare grandi attraverso il distacco del piccolo Mattia da suo nonno. Da qui inizia il nostro dialogo che, seguendo il filo tematico del “cresco, dunque sono”, tocca anche tutti gli altri lavori prodotti con la Fondazione Sipario Toscana Onlus e in tournée nella prossima stagione: la novità di Peter Pan, in prima nazionale a novembre alla Città del Teatro di Cascina, la ripresa del Diario di un brutto anatroccolo, coprodotto con TIR Danza, e di La bisbetica domata, pièce di prosa, questa, pensata per un pubblico soltanto di adulti.


Tonio De Nitto, con voi i bambini s’immaginano come saranno da grandi, mentre i grandi si ricordano com’erano da bambini. La vita, in qualche modo, si ripete: viviamo, in momenti diversi, condizioni simili. La perdita di una persona cara, tema al centro di Mattia e il nonno, è dolorosa a otto come a ottant’anni. Crescere equivale a sopportare ed elaborare l’abbandono?


Questo spettacolo è una sorta di farmaco al distacco. Grazie alle parole di Roberto Piumini, che è un importante autore per l’infanzia, si riesce ad alleviare, ad attutire il conflitto terribile che abbiamo noi occidentali nei confronti della morte. È un testo che ci aiuta a capire come le cose non ci lasciano, ma si trasformano. Il corpo di una persona, in realtà, è solo un involucro: l’anima continua a viaggiare in quello che si è fatto assieme. I nostri cari rimangono sempre dentro di noi. Trovo miracoloso che Mattia e il nonno riesca a spiegarlo ai bambini.


L’intenzione è, comunque, quella di chiamare tutto con il proprio nome. Ai bambini non bisogna mai indorare alcuna pillola?


No, assolutamente no. Al contrario, è fondamentale trattarli da grandi, non pensare che siano meno intelligenti o sensibili di noi. Così, in una lunga e inaspettata passeggiata, nonno e nipote si preparano a salutarsi, a guardare il mondo, a capire le regole che governano l’animo umano, a giocare assieme e a rimanere vivi nel cuore di chi si ama. Ippolito Chiarello, per la prima volta, proverà a farci fare questo viaggio con gli occhi innocenti e curiosi di Mattia. Una tenerezza infinita è alla base di questo straordinario racconto scritto da Piumini con dolcezza e fantasia. Tutti dovremmo avere l’opportunità di recepire la morte come questo cammino tra nonno e nipote e non come un trauma, come spesso accade nella nostra esistenza.

Dire le cose come stanno significa far capire che crescere è anche accettare ciò che siamo e possiamo fare. È questo l’insegnamento di Peter Pan?


Il nostro Peter Pan arriva a un punto in cui non può più conoscere, non potendo crescere. Allora, non capisce il mondo che gli è attorno, né l’amore, né tutto quello che appartiene a una fase della vita successiva alla sua. Quindi, riconosce i suoi limiti e questo fatto, fondamentalmente, lo strugge. È un bambino che forse non è mai nato, è rimasto come cristallizzato nel tempo. In definitiva, rappresenta l’idea stessa dell’infanzia che fatica a rimanere con noi tutta la vita: è una finestra che chiudiamo diventando grandi e che, invece, dovremmo tenere aperta, in contatto con la nostra realtà e il nostro essere.


Non potendo crescere non può nemmeno vivere?


Peter Pan è la storia di un’assenza, di un vuoto che spesso rimane incolmabile, di un tempo che sfugge al nostro controllo, delle esperienze che ci fanno diventare grandi anche senza volerlo. L’ispirazione viene dalle avventure di Peter e Wendy e dall’atmosfera un po’ misteriosa del primo romanzo di James Matthew Barrie, Peter Pan nei Giardini di Kensington. Le vicende autobiografiche spingono l’autore a creare un mondo parallelo, un giardino prima, un’isola poi, dove i bambini caduti dalle carrozzine e dimenticati dai propri genitori si ritrovano in uno spazio senza confini fisici e temporali.


L’ensemble è lo stesso del pluripremiato Diario di un brutto anatroccolo con protagonista Francesca De Pasquale, una ballerina con la sindrome di down. Il corpo comunica più delle parole?


Francesca è una ricchezza incredibile che abbiamo scoperto facendo il Diario e volendo raccontare una verità che poi si universalizza. Abbiamo fondato assieme, come Compagnia, un linguaggio che è prettamente fisico. Per Peter Pan abbiamo costruito una vera e propria drammaturgia senza parole, a parte una voce fuori campo, a cui sono affidate alcune riflessioni. Ci sta lavorando Riccardo Spagnulo: non si racconta quello che accade, ma si sposta, diciamo, più in alto la riflessione.


Una bella sfida.

In un processo di semplificazione è necessario togliere qualcosa: rinunciare alla parola ci dà la possibilità di esportare più facilmente i nostri spettacoli. Il Diario sta facendo delle tournée all’estero molto belle, il prossimo anno sarà in Francia e in Spagna. Con poco riusciamo a comunicare a tutti.


I limiti, quindi, dobbiamo accettarli. Ma anche provare a superarli?


Tutto quello che ci accade, ci può far diventare delle persone più forti. Non bisogna nascondere le cicatrici accumulate nella vita, possono e devono, invece, diventare il nostro tesoro. La perdita di fiducia in noi stessi, negli altri e anche nel mondo, credo che non debba bloccare mai la voglia di trovare in sé la forza per continuare a vivere. Diario di un brutto anatroccolo usa il classico di Hans Christian Andersen come pretesto per raccontare una sorta di diario di un piccolo cigno, creduto anatroccolo, che compie un percorso di formazione alla ricerca di se stesso, del proprio posto nel mondo, e alla scoperta della diversità come elemento qualificante e prezioso.


Si attraversano le varie tappe della vita come quelle raccontate nella storia originale?


Ci sono la nascita e il rifiuto da parte della famiglia, la scuola e il bullismo, il mondo del lavoro, l’amore che arriva inatteso e che presto può scomparire, anche per cause esterne non riconducibili a noi, la caccia e poi la guerra come orrore inspiegabile. Sono tutte tappe di un mondo ostile, forse, ma che resterà tale solo fino a quando il nostro “anatroccolo” non sarà in grado di guardarsi negli occhi e accettarsi così com’è.


Diversità, identità, integrazione, sono questioni ben presenti anche ne La bisbetica domata. Nel caso della sua protagonista, Caterina, crescere è affermare il proprio ruolo agli occhi della società?

Caterina è l’inadeguata, la non allineata, non ha filtri, non ha le sovrastrutture proprie della sua famiglia e di tutti quelli che le sono attorno. Segna la differenza rispetto a una società oppressiva: è l’unica libera, che insegue e dice la verità. Quindi, anche qui c’è il tema del trovare se stessi, di accettarsi e farsi accettare per quello che si è. Cosa che non accade, perché lo spettacolo vira verso il tragico, diventando una fiaba noir, sempre più scura sul finale. Ci siamo chiesti cosa volesse dire oggi “addomesticare”, “domare”: ne è nata una riflessione sulla violenza sulle donne, che arriva allo spettatore come un pugno nello stomaco.

Come a Peter Pan, pure a Caterina, in qualche modo, non è permesso di crescere e, di conseguenza, è negato di vivere?

Le è negata la possibilità di scegliere, in un mondo di mercimoni, di padri calcolatori, di figlie in vendita, di capricci lontani dall’amore, di burattinai e burattini non destinati a vivere i sentimenti, ma a contrattualizzarli. Davanti a tutto questo Caterina, spigolosa, ma pura e vera, cerca proprio di rimanere viva rimanendo se stessa. Quindi, il suo crescere è la voglia di sopravvivere. Il Misantropo, da noi prodotto con Accademia Perduta / Romagna Teatri, parla di un altro outsider ancora: Alceste cerca di mantenere integra la sua identità senza scendere a compromessi, in una società totalmente schiacciata da falsità, opportunismo, adulazione, cialtroneria. Al pari di Caterina, persegue la verità e la sopravvivenza in un mondo che si sta sgretolando e sta crollando davanti ai suoi occhi.

In conclusione, allora, mi sembra si possa affermare che da bambini bisogna diventare se stessi, usando un’espressione di Friedrich Nietzsche; da grandi, invece, bisogna restare se stessi.

Assolutamente sì. Bisogna accettarsi, capirsi, trovarsi e rendersi conto che, nella nostra diversità, nella nostra totale differenza, siamo portatori di verità e bellezza. Penso che questa tua conclusione riassuma e leghi bene le opere di cui abbiamo parlato.

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