CORRI, DAFNE visto da Michele Di Donato per ilpickwick.it
Va decisamente meglio il giorno dopo, quando in successione, negli spazi allestiti a Campi Salentina (Piazzetta Bottari Maddalo, Piazza Libertà e di nuovo Casa Prato) assistiamo a due spettacoli che riconciliano con la bontà del fare teatro e a un concerto teatralizzato che strappa sorrisi e ispira un senso di gradevolezza. E assistiamo soprattutto alla dimostrazione pratica di quanto non sia necessario approntare un armamentario di orpelli scenici per fare del buon teatro, ma basta, quand’anche la scena è nuda o quasi, che ci siano una drammaturgia, degli attori e una visione e che sussista una consapevolezza di sé e di ciò che si sta andando a proporre. Si parte, dalla “piazzetta delle storie” (un angolo di Campi Salentina che sembra fatto apposta per esserne accogliente ricetto): Corri Dafne! vede in scena Ilaria Carlucci sotto le luci sapientemente dosate da Alberto Cacopardi in regia; la storia è semplice e semplicemente raccontata, attingendo dal mito classico e raccontando di Dafne, ninfa dei boschi (una Naiade) che rifugge l’amore di Apollo. Ma bastano un corpo, una voce, una storia, bastano un’idea, una visione e la capacità di tradurre l’evocazione in immagini e suoni; basta tutto questo (che poco non è) a far sì che il racconto che si compone sulla scena abbia senso e valore. L’esametro ovidiano è solo un punto di partenza, un riferimento letterario rivisitato e rielaborato in forma di narrazione teatrale coerente. Scarponi slacciati, veste fasciante dalle cromie boschive, un bracciale tra l’omero e il gomito sinistri, Ilaria Carlucci entra cantando, mentre canta si rivolge al pubblico, cerca l’allocuzione tipica della ritualità del racconto, ci dice di una notte di luna piena nel bosco, di un fiume che rompe gli argini, che fa mescolare acqua e terra fino a creare una figura d’argilla, una piccola creatura che Ilaria evoca maieuticamente con le mani, seduta su quel cilindro in centro di palco, unico oggetto di scena: lei è Dafne, creatura dei boschi, che ci guida con le parole nel racconto della scoperta del proprio corpo; il canto che accompagna gesti e gesti che accompagnano il canto, lo stupore mostrato dalla mimica facciale, l’evocazione nel fluido agire delle mani, una fluidità che rende immediata l’evocazione, funzionale e variegata, mai eccessiva e sempre congrua alla modulazione politonale della voce, bilanciata nei ritmi e nelle intonazioni; le sillabe finali ripetute, echi lontani di mitografie remote che giungono chiare fino al riverbero nel tempo presente. La narrazione è lineare, l’uso del corpo consapevole e misurato, braccia e gambe agite sono dinamica evocazione del fiume suo padre. C’è padronanza del racconto, nel quale la Carlucci infonde quella calibrata dose di partecipazione e quel gioviale tocco di leggerezza che concorrono a rendere lo spettacolo avvincente e piacevole, spingendo laddove serve, instillando facondia laddove è possibile. Messinscena che si snoda agile e sinuosa, come il corpo flesso e teso di chi l’interpreta, e che giunge al proprio climax nella metamorfosi finale, in cui le membra umane di Dafne vedono compiersi il loro destino trasfigurandosi nell’icastica immagine di una ninfa che diviene albero, figura che si fa affresco emblematico, corpo che si fa tronco, rami le braccia, lasciandoci con un’ultima potente, poetica evocazione.